La obsolescencia sintomática

Ugo Pipitone

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Ritardi, possibilit à e bussole inservibili
(a proposito di America latina oggi)
Ugo Pipitone
Revista Internazionale, No. 90-91, Diciembre 2007-Enero 2008

 

Dopo parecchi anni senza vederci, Goffredo non lascia spazi alla lirica (io, noi, il tempo che passa, ecc.): descrivi l'America latina é la gentile ingiunzione. E cos ì , senza preavvisi di sorta, si materializza un compito a lungo postergato, dire in italiano alcune cose che si intrecciano con attenzioni e negligenze decennali. Guarder ò all'insieme (per quel che posso) dall'osservatorio messicano in cui vivo. Ci ò che ha i suoi limiti ma, d'altra parte, non è facile immaginare osservatori neutri senza nutrirne un vago sospetto. Aggiungo che, nella tassonomia dell'artigianato accademico, mi occupo di sviluppo e storia economica comparativa. Per rendere esplicite alcune insistenze a venire.

 

 

Rivoluzione come retorica

Nel 1872 (l'anno dopo la Comune parigina), sorprendentemente, Marx sostiene la possibilit à di rivoluzioni pacifiche in paesi come Olanda, Inghilterra e Stati Uniti. In forma obliqua si riconosce qualche valore alla democrazia liberale come ingegneria sociale di regole conflittualmente ridefinite. Dal canto suo, Engels fa quel che pu ò per ricondurre il comunismo alla condizione di filosofia: la rivoluzione è gi à solo un lontano mito fondazionale nella vita politico-sindicale di ogni giorno. E in una lettera a Kautsky del 94, considera Il Manifesto un testo produttore di confusioni e “caduco da 30 anni”.

 

Dopo la Comune , la seconda guerra mondiale e il 68 la rivoluzione svanisce dal metabolismo intellettuale della sinistra europea, ma persiste (anche se pi ù come orizzonte culturale che come progetto) in un'America latina che modernizza una povert à di massa da cui non pu ò uscire. Dopo il 68 e il suo tentativo di un'“altra” rivoluzione, i l volontarismo rivoluzionario si affoga in Europa nella routine democratica e nella coscienza dolorosa della nuova complessit à , ma in AL l'esempio cubano (malgrado la critica devastante de I guerriglieri al potere di K.S. Karol nel 70) continua ad essere un forte richiamo culturale per settori dell'intellettualit à critica e per diverse frange di giovent ù urbana . Alla rivoluzione svanita sopravvive il suo fantasma. Con cui, aggiungiamo, non è facile convivere.

 

L'America latina aveva inaugurato il secolo con la rivoluzione messicana e cinquant'anni dopo vedeva Fidel al potere. Ma i segni non erano dei pi ù fausti. La rivoluzione messicana istituzionalizzata si era convertita in una mistura di presidenzialismo quasi-monarchico, corporativismo sotto controllo statale, inconsistenza programmatica, corruzione rampante ed eterna autocelebrazione. E dopo settant'anni al potere, il Pri ( Partido revolucionario institucional ) è stato finalmente sconfitto nel 2000 (e di nuovo nel 2006) lasciando dietro di sé una quarantina di milioni di poveri e istituzioni borbonico-rivoluzionarie. Un bilancio non esaltante per quella che era stata la prima rivoluzione del secolo. Nel 59 un'altra rivoluzione trasferisce ai Caraibi, come nuova ingegneria del futuro, il peggio della tradizione sovietica: partito unico, economia di comando e cultura ufficiale coattiva. E, come plus locale, un líder máximo logorroico che salda in sé un marxismo ridotto a scolastica autoritaria con la figura del caudillo ottocentesco. Nuova versione del modello del faraone (che conosce il cammino) e il gran sacerdote (che conosce la virt ù ) in una sola persona. Corsi e ricorsi.

 

Ma a contropelo di questi e altri segni, la Rivoluzione -come teodicea, come laico ideale salvifico- getta radici in contesti socialmente bloccati. Il mito d à identit à a minoranze con scarsi agganci sociali, alimenta la riapparizione ciclica dell'uomo del destino e lascia in una zona d'ombra quello che pu ò minacciare la sua pretesa aderenza con la realt à (possibile) del mondo. Che in diversi casi esemplari la rivoluzione perda anche quando vince, resta sostanzialmente fuori dal perimetro di riflessione di gran parte della sinistra. Come se la condizione psicologica dominante fosse quella di chi si trova (che lo sia davvero o no è un'altra storia) sotto fuoco nemico, quando notoriamente pu ò non essere opportuno aprirsi all'autocritica. E cos ì applaudire il disastro o guardare dall'altra parte diventano le due prospettive maggiori.

 

Ma ci ò che questiona le fondamenta di una visione etico-volontarista della storia latinoamericana degli ultimi decenni viene proprio da Marx. Che certamente non l'ha mai scritto ma lo ha detto in molte forme: una sola cosa è peggio del capitalismo ed è la sua mancanza (o, chioso, una sua caricatura semi-signorile incapace di alimentare un processo sostenuto di integrazione sociale). D'accordo, si pu ò rispondere a Marx con una valanga di critiche di eurocentrismo, determinismo e tutto il resto. E molte critiche potrebbero essere corrette. Ma il problema resta: se il capitalismo possa essere eluso , se sia possibile pensare a un futuro diverso a partire da macchine produttive poco (e disegualmente) sviluppate e da strutture politico-amministrative inefficaci e scarsamente legittimate agli occhi di societ à frammentate. Se sia possibile affrontare con successo questo doppio ritardo (economico e politico) fuori dal capitalismo e dai suoi spiriti animali. Un capitalismo che, aggiungiamo, nella versione latinoamericana non ha dato, salvo a sprazzi, gran prova di sé. Com'é ovvio, la risposta a queste questioni non pu ò (non deve) venire dall'empireo dei principi ma dalla storia e dalle sue possibilit à concrete .

 

Se la rivoluzione (ma pi ù che questo la cultura rivoluzionaria come un miracolismo laico) non pu ò compiere la promessa di acquisire il meglio del presente e andare oltre, il suo stesso senso persiste solo a una condizione: sigillarsi dal mondo in una virtuosa impotenza. Mito, appunto, che pu ò abbellire le bandiere (ma non è facile supporre che Sendero Luminoso in Per ù o le Farc colombiane abbiano abbellito alcunché) e far perdere molto tempo tra visioni cospirative del mondo e volontarismi minoritari. All'America latina è toccato giocare un ruolo non piccolo in un'idea di rivoluzione che potrebbe essere lasciata in pace se non avesse oggi il potere di ritardare il possibile assieme a altre scomode inerzie culturali. Immaginiamo un Rama dai lunghi sonni che si risveglia per tendere il suo arco possente e, regolarmente, sbaglia la mira e torna ad addormentarsi fino a quando si sveglier à di nuovo per ripetere la stessa storia. Una sconfitta che si rinnova come incapacit à di deviare un cammino secolare in cui masse di povert à passano (cambiando forma) da una generazione all'altra tra le coordinate abituali del gattopardismo di élites con deficiente senso dello stato e scarsa responsabilit à sociale. Antichi vizi aristocratici trasmutati e conservati.

 

Ma l'eroismo stanca e ci si stufa di testimonianze cristiane (con molta teologia e poca sociologia) in chiave rivoluzionaria, delle grandi cause che si esauriscono in miraggi anarco-comunitari –inconsapevole, eterno fascino delle missioni gesuite in Paraguay-, o in deliri carismatico-stalinisti. Pi ù prosaicamente uno vorrebbe scuole pubbliche decenti capaci di attivare una mobilit à sociale inceppata da decenni, vorrebbe un' amministrazione dello stato pi ù efficace e trasparente, meno condizionata da clientele e corporazioni e dal miscuglio di corruzione pubblica, inaffidabilit à amministrativa e sudditanza civile, uno vorrebbe politiche serie contro la povert à oltre ai poveri sussidi che lasciano intatti i meccanismi dell'impotenza collettiva. Pi ù che il potere , uno vorrebbe una politica con un'azione collettiva permanente, pi ù discussione pubblica sulle scelte e meno personalismi messianici. Cose semplici (le piccole cose di Arundhati Roy) che sono infinitamente pi ù complesse ed essenziali che le grandi sparate ideologiche per dare nobilt à etica all'impotenza, alla indigenza di idee mondane o ai fallimenti non riconosciuti. Ma cerchiamo di prendere distanze e fissare alcune prospettive, come suol dirsi, storiche.

 

Un antico piano inclinato

America latina significa oggi 560 milioni di persone, il 9% della popolazione mondiale ed il 7% della ricchezza annualmente prodotta. Di questi, circa 220 milioni vivono in condizioni di acuta povert à . Una massa gigantesca che -cresciuta sull'onda della demografia e delle fragilit à storiche del capitalismo latinoamericano- si modernizza: è oggi doppio il numero dei poveri urbani rispetto a quelli rurali. Buñuel aveva visto bene. Il progresso come passaggio da Los olvidados a Blade runner n elle diverse versioni di San Paolo, Bogotá, Citt à del Messico, ecc.

 

L'America latina è un estremo Occidente portatore di una promessa incompiuta: quella di lasciare alle spalle le rigidit à e i privilegi di tre secoli di colonia, e accorciare, nelle forme e tradizioni proprie, le distanze rispetto agli spazi mondiali di maggior benessere e consistenza democratica. Progressi ci sono stati e ci sono tuttora ma la regione continua ad essere, nel suo insieme, una promessa che non si compie.

 

Tuffiamoci, con il grafico che segue, nel passato lontano per avere un'idea delle dimensioni di un ritardo che si conserva nel tempo. E semplifichiamo attorno ad una sola variabile: il Prodotto interno lordo pro capite (Pil pc), che pu ò essere assimilato a un indicatore della produttivit à media di una societ à e, con cautela, del suo benessere medio . Poniamo uguale a cento il Pil pc USA dall'inizio dell'800 alla fine del 900 per valutare le tendenze di lungo periodo del Pil pc latinoamericano in rapporto a quello del vecino del norte . Limitiamoci qui a Argentina, Cile, Brasile e Messico che, congiuntamente, rappresentano oggi il 63% della popolazione ed il 76% del Pil regionali.

 

 

PIL Pc (in % degli USA)

 

USA Argentina Cile Messico
Brasile

 

L'immagine immediata è fin troppo nitida ed è quella di una ininterrotta deriva dinamica (in rapporto agli Stati Uniti) che viene dall'inizio dell'800 in Messico e Brasile e dalla prima parte del secolo successivo in Argentina e Cile. Se un extraterrestre osservasse queste curve potrebbe immaginare una prolungata decadenza latinoamericana. Non è cos ì o non è cos ì semplice. Malgrado i maggiori numeri del malessere sociale che si riscontrano avvicinandoci al presente, è francamente difficile comparare il Messico dei latifondi dei tempi di Porfirio Díaz con il Messico urbano che esporta oggi pi ù di 200 miliardi di dollari in prodotti industriali. Di ché decadenza è seriamente possibile parlare ricordando il Brasile delle potenti oligarchie agrarie regionali (fino agli anni venti del secolo scorso) alla luce del paese che, sintetizzando e semplificando, ha oggi un ex sindacalista come presidente? Ma i numeri sono chiari: agli inizi dell'800 il Pil pc di Messico e Brasile era pi ù della met à di quello statunitense, due secoli dopo appena arriva a una quarta parte. Non decadenza ma certamente un forte, persistente, ritardo dinamico. Per cos ì dire.

 

Uscire dall'arretratezza (e ci arriveremo tra poco) significa, tra le altre cose, correre pi ù in fretta di quelli che sono alla testa della corsa . Nella lunga durata latinoamericana ci ò non è successo (relativamente agli Stati Uniti) che per un periodo relativamente corto tra gli anni 40 e 70 sempre in Brasile e Messico, ma senza che questo lento accorciamento della distanze con gli Stati Uniti potesse conservarsi successivamente. In effetti nei due decenni successivi la tendenza si inverte. Ma negli ultimi cinque anni (2003-2007), l'economia latinoamericana (escludendo Ecuador, Bolivia, Paraguay, Guatemala e altri) recupera alti tassi di crescita e il Pil pro capite regionale, dopo un paio di decenni di stagnazione, cresce a un ritmo annuale vicino al 4%, il doppio degli Stati Uniti. Si è rimesso in moto un meccanismo di riavvicinamento intracontinentale?

 

Rispetto a passati cicli di crescita, qualche novit à c'é. Una in primo luogo: l'equilibrio sostanziale dei conti con l'estero ci ò che d à qualche speranza in pi ù sul futuro immediato . Ma se si ricorda che una parte non piccola del dinamismo attuale è associata all'aumento del prezzo di varie materie prime esportate dalla regione, ecco rinascere l'incertezza sulla sostenibilit à dell'attuale ciclo di crescita. Il dubbio che non si stia imboccando il rettilineo finale che condurr à fuori dall'arretratezza si rafforza pensando alla continuata fragilit à istituzionale, a un'ininterrotta, e costosa, disattenzione verso il mondo rurale (dove si concentrano i pi ù poveri dei poveri) e verso società locali semistagnanti con diverse miscele di erosione del suolo, emigrazione, scarsa azione collettiva e quasi nulla mobilità sociale . Non tutto è qui, naturalmente, ma certamente c'è qui una parte non piccola del presente.

 

Da anni sappiamo che la lotta contro la povert à ha un requisito ineluttabile: l'accelerazione della crescita economica. Ma sappiamo anche che a parit à di crescita, la povert à diminuisce pi ù in fretta nei paesi con minore disuguaglianza iniziale. In altre parole: la crescita è sostenibile solo se alimenta un incremento progressivo del grado di integrazione sociale. Dov'è il problema? Il primo lo abbiamo menzionato: i dubbi sulla crescita futura. Il secondo è da tempo ovvio: l'America latina è la regione mondiale di maggior polarizzazione di redditi e ricchezze. Ergo , qui bisogna correre pi ù in fretta per ottenere risultati significativi di integrazione sociale e sostenibilit à stessa della crescita .

 

Ma ripetendo una storia antica, la distribuzione dei redditi è peggiorata negli ultimi anni in alcuni dei paesi di maggiore crescita regionale come l'Argentina, il Cile e il Venezuela. Le ragioni sono diverse, ma certo è preoccupante che quando finalmente si cresce si riapra la falla che la crescita dovrebbe curare: la acuta polarizzazione sociale. Qualcosa evidentemente non funziona o funziona come non dovrebbe.

 

Uscire dall'arretratezza

In estrema sintesi: lasciare alle spalle l' arretratezza (dove la maggioranza è povera, vive meno e peggio che nei paesi sviluppati ) è una costruzione di compatibilit à dinamiche tra convergenza sociale, aumento e omologazione settoriale della produttivit à e maggiore credibilit à istituzionale. Se pensiamo ai 13 o 14 decenni precedenti, fenomeni che possono essere descritti come uscita dall'arretratezza sono avvenuti sostanzialmente in due occasioni e in due regioni. La prima, tra la fine dell'800 e gli inizi del 900 con Svezia, Danimarca, Germania, Giappone e (parzialmente) l'Italia. La seconda, a partire dagli ultimi decenni del 900, con Corea del Sud, Taiwan, Singapore e Hong Kong. A cui dovremmo aggiungere Spagna, Irlanda, Slovenia e pochi altri. Malgrado tempi e luoghi diversi, hanno queste differenti storie qualcosa in comune?

 

Intervistato, nel film-inchiesta di Pasolini, Comizi d'amore (1963) –che mia figlia, a Bologna, mi fa scoprire al computer- Ungaretti dice qualcosa del genere: ogni essere umano è un'anomalia. Perché non supporre, con ragionevolezza similare e tutte le cautele del caso, che valga la stessa cosa per paesi interi? Ma come immaginare allora una qualsiasi continuit à nella discontinuit à di storie irripetibili? Ungaretti ha ragione ma alcune regolarità, in forme uniche, si stabiliscono. Diciamolo cos ì : indipendentemente da tempi e geografie, le esperienze di uscita dall'arretratezza hanno tratti comuni con manifestazioni differenti. Il mondo è irregolarmente seminato da disposizioni regolari, diceva Paul Valéry. Quali disposizioni ?

 

La rapidit à in primo luogo. In tutti i casi menzionati il rattrapage con la frontiera tecnologica e di benessere dell'epoca occorre in due generazioni (attorno ai 40 anni), un tempo sorprendentemente corto per superare ritardi spesso secolari. A giudicare dal passato europeo-nipponico e dal presente asiatico-europeo, dall'arretratezza si esce rapidamente o non si esce. In altri termini, l'arretratezza è un castello che cade sotto assalto, sotto assedio è inviolabile. E continuando con le metafore, è come se per uscire dalla forza gravitazionale dell'arretratezza fossero necessari diversi e potenti motori in azione capaci di sopportare lo sforzo per un certo numero di anni. In tutti i casi che si sono menzionati assistiamo a brusche accelerazioni della crescita economica che si sostengono per tre o quattro decenni. Una seconda disposizione quasi-comune è il senso di urgenza politica da parte di classi dirigenti con fragili basi iniziali di legittimit à . E dovremmo aggiungere riforme agrarie capaci di migliorare sostanzialmente la vita nel mondo rurale; il rafforzamento della solidit à interna delle istituzioni con una pi ù o meno sfasata legittimazione sociale; il miglioramento progressivo nella distribuzione dei redditi e, finalmente, il carattere regionale di processi nazionali che si contagiano reciprocamente, quasi che le nazioni fossero protagonisti secondari di processi di molto pi ù ampio spettro. Enumeriamo le continuit à registrate: rapidit à ; ricerca di legittimit à ; trasformazione rurale; istituzionalizzazione delle istituzioni; minor sperequazione dei redditi (associata alla contrazione della massa previa di lavoro disponibile) e, oltre i confini nazionali, il dinamismo regionale. Naturalmente non è tutto qui e ci ò che è qui assume aspetti diversi e d à luogo a equilibri diversi nei diversi contesti nazionali. Per ò il secolo appena concluso dimostra che se la fortuna e l'intelligenza si combinano formando una miscela attorno alle continuità ricordate, allora esiste una possibilità di lasciare alle spalle l'arretratezza. Lasciando da parte l'ottimismo dei cambiamenti minimi e progressivi, guardando la storia recente e traducendo in italiano, è come dire che dalla questione meridionale si può uscire. La storia non sar à magistra ma qualche senso ce l'avr à pure per il presente l'insieme delle esperienze di successo che vanno dalla Svezia del 1900 alla Corea del sud del 2000?

 

Diciamolo in fretta e con un'ampia approssimazione: in quasi nessuno dei vettori indicati di cambiamento –che hanno fatto possibile l'uscita dall'arretratezza di paesi tanto diversi- l'America latina dell'attualit à pu ò vantare progressi sostantivi. Forse solo la rapidit à (negli ultimi cinque anni), per il resto il quadro generale è variamente lontano dalle esperienze europee e asiatiche indicate. In quanto alle interdipendenze regionali, i diversi, solenni, patti (e la sola lista pu ò riempire varie pagine) giacciono stancamente da qualche parte. La retorica dell'unit à latinoamericana è inversamente proporzionale alla coscienza da parte delle élites nazionali (e non solo) del carattere strategico della cooperazione regionale.

 

Ma supponiamo che nei prossimi decenni i cinque tratti comuni -vettori o disposizioni che dir si voglia- indicati sopra (lasciando da parte per il momento la crescita economica) entrino in un processo di rafforzamento reciproco. Immaginiamo quindi che, in un nuovo e imprevisto episodio della storia universale, l'America latina entri nei prossimi decenni in un circuito virtuoso di riforme sostenibili. Se ci ò avvenisse, quale crescita sarebbe necessaria per compiere il tragitto materiale oltre l'arretratezza?

 

Supponiamo che l'attuale Pil pc di paesi come la Slovenia , il Portogallo o la Grecia possano rappresentare il primo “stadio” oltre una povert à di massa, una acuta polarizzazione dei redditi e istituzioni di scarsa legittimazione sociale -cosa ovviamente diversa dalla popolarit à dei governi. Quanto mancherebbe all'America latina raggiungere il Pil pc attuale di questi paesi? Se la crescita di questo indicatore si situasse nei prossimi decenni attorno a un 3% annuale, al Messico mancherebbero 22 anni, alla Bolivia 66, al Cile 15, al Venezuela 38, al Brasile 28. Supponendo -negli ampi margini delle nostre semplificazioni- che questi numeri abbiano una qualche plausibilit à , cosa indicano? Il tempo minimo -a condizione che gli altri vettori del transito entrino in un proprio circuito virtuoso- per uscire dall'arretratezza.

 

Il limite quasi-fisico dell'ottimismo contemporaneo indica tempi che oscillano tra i 15 anni del Cile e i 66 della Bolivia. Da una parte, una possibilit à a portata di mano, dall'altra, un lungo (e inevitabilmente incerto) cammino. L'omogeneit à latinoamericana è fatta di molte eterogeneit à. Tre osservazioni. Prima: non è probabile una crescita di lungo periodo a meno di cambiamenti profondi nello spazio socio-politico. L'economia rende materialmente possibile ci ò che non pu ò produrre da sola; se non fosse cos ì il mercato sarebbe una utopia in processo alla quale solo resta dare tempo. Seconda: la cultura e la politica (e soprattutto la cultura politica) possono accelerare o ritardare i tempi necessari per far s ì che alcuni paesi latinoamericani arrivino alla stazione di Lisbona o di Lubiana in tempi non biblici. La cultura no è mai solo un riflesso della realt à sennò Confucio avrebbe capito tutto . Terza: i tempi dell'America latina sono diversi ma è difficile supporre che possano darsi episodi isolati di successo di lungo periodo senza un coinvolgimento regionale o subregionale. Come spiegare i successi della Spagna senza l'Unione Europea o della Corea del sud senza gli investimenti e i mercati giapponesi?

 

 

E il guidatore?

Fortini aveva ragione: il socialismo non è inevitabile. Uscire dall'arretratezza neanche, ma è possibile; questo testimoniano una dozzina di storie asiatiche ed europee di ieri e di oggi. Ma allora, non è di sinistra concretizzare (o contribuire a farlo) la migliore prospettiva storicamente possibile? A meno che si sia perduti in qualche culto del futuro che non fu. E la migliore prospettiva è oggi quella di lasciare alle spalle un' arretratezza fatta di povert à di massa che scorre da una generazione all'altra mentre istituzioni miserande stanno a guardare senza la capacit à o la volont à di cambiare rotta.

 

Pensando a Danimarca, Svezia o Germania di pi ù di un secolo fa, chi potrebbe negare il ruolo di partiti socialisti e sindacati operai nell'accelerare trasformazioni civili (e, indirettamente, tecnologiche) necessarie sulla strada dell'uscita dall'arretratezza? Ed è la storia della SPD tedesca, la SAP svedese e l'alleanza rosso-verde nella Danimarca di inizio 900. In questi casi il socialismo non solo ha distribuito meglio ma ha contribuito a accrescere le basi materiali della distribuzione spingendo in avanti l'equilibrio storicamente possibile di capitalismo e democrazia. Ma passare a Corea del sud, Taiwan, Singapore e Hong Kong è passare a un'altra storia in cui la sinistra non ha giocato un ruolo centrale negli ultimi decenni del 900, quando si concretizzava in questi paesi ci ò che abbiamo chiamato uscita dall'arretratezza . In questo quadro di culture regionali l'America latina sembra pi ù vicina (anche se in forma anomale) al percorso europeo che a quello asiatico. E quindi , la sinistra è destinat a a giocare qui un ruolo essenziale nel superamento di ritardi accumulati che inceppano la marcia verso un futuro migliore.

 

Ma dov'è il guidatore? Diciamolo brutalmente: dallo stato non si possono aspettare grandi novit à . La coscienza del peso storico di istituzioni né efficaci né socialmente credibili e dei guasti che ci ò ha prodotto e produce è ancora molto lontana dall'essere un dato culturalmente acquisito nella cultura politica regionale, di destra o di sinistra. A Citt à del Messico (dove governa la sinistra ) l'esame per la patente è stato eliminato per combattere la corruzione negli uffici incaricati. Una specie di neoliberismo di sinistra. E sempre in Messico, la politica dei sussidi all'agricoltura che dovrebbe essere calibrata sulle diverse condizioni sociali del mondo rurale, richiedendo la partecipazione di una burocrazia inevitabilmente complessa, non pu ò permettersi questo lusso per il rischio di una corruzione istituzionale che potrebbe succhiare per sé gran parte dei sussidi. Soluzione? I sussidi all'agricoltura si distribuiscono in funzione di un solo criterio, che riduce al minimo l'intromissione burocratica: il numero di ettari. Con il risultato di polarizzare ancora di pi ù un'agricoltura gi à polarizzata e mantenere in miseria quelli che l ì si trovano. Morale: per non combattere la corruzione, e cioè, per non riconoscere come urgenza delle urgenze il profondo cambiamento nell'amministrazione pubblica e nei suoi rapporti con i cittadini, si imboccano strade che possono peggiorare il presente.

 

L'inaffidabilit à di un'amministrazione pubblica (ricordando che il Cile non è il Venezuela) pi ù o meno intrecciata con favori politici, poca trasparenza e impunit à rende arduo supporre che da l ì possa venire una spinta iniziale credibile verso riforme di ampio spettro. A meno che si voglia credere alle sparate volontaristiche di leader neopopulisti che non dispongono di idee forti oltre a quella dell'occupazione salvifica del potere (con democrazia plebiscitaria), né di apparati adeguati a promuovere e amministrare le riforme richieste, né di consensi sociali capaci di sostenerle per il tempo necessario. Che in Venezuela la corruzione raggiunga oggi livelli simili a quelli che motivarono a suo tempo il golpe di Chávez, non dovrebbe essere ragione di sorpresa.

 

Dall'altra parte, che una cultura imprenditoriale ritagliata per decenni attorno a sindacati di stato o generose commesse e protezioni legali e paralegali, possa essere considerata in blocco come lo strumento per compensare la spinta riformatrice assente delle istituzioni, è anch'essa una prospettiva poco probabile. Non c'è qui, o non c'è ancora, una borghesia che (in dinamismo economico e senso di responsabilit à istituzionale) sia comparabile agli antichi zaibatsu giapponesi, alle cooperative rurali danesi, all'AEG tedesca o, passando al presente, ai chaebol coreani o alle reti di piccole imprese di Taiwan. Segni positivi ce ne sono vari, ma parziali segni positivi ci furono anche nel passato e l'uscita dall'arretratezza rest ò un'eventualità lontana.

 

Il Messico ha il dubbioso onore di avere tra i suoi cittadini l'uomo pi ù ricco del pianeta. Ma come dimenticare che la fortuna di Carlos Slim (quattro volte quella di Berlusconi) è iniziata meno di vent'anni fa con l'acquisizione della compagnia telefonica pubblica a prezzo stracciato grazie alla benevolenza del presidente di turno, Carlos Salinas? Lo stato pu ò fare miracoli da queste parti. Una fortuna subito rafforzata da tariffe interne stratosferiche (nella tradizione di un'accumulazione originaria interminabile) e dall'indubbia abilit à e spregiudicatezza imprenditoriali del personaggio. Ma un russo o un cinese devono gi à essere in lista d'attesa per riempire di legittimo orgoglio altre parti del mondo. Semplificando, ma non troppo: imprenditori come questi sono tutt'al pi ù mali necessari che rivelano il bisogno di un'attenta vigilanza pubblica per evitare privilegi socialmente costosi. In ogni caso, una storia individuale di successo, per quanto importante, non sostituisce reti imprenditoriali interattive e imbricate con una societ à in trasformazione.

 

In questa ricerca dell'agente interessato e capace di pensare in forma concreta a una prospettiva di uscita dall'arretratezza, cos'altro resta se non una sinistra riformata che sappia promuovere dal governo e diffondere dalla societ à, la coscienza di una possibilit à attorno alla quale costruire regole, consensi e comportamenti inediti? Perché una sinistra riformata ? Perché quella reale è (ancora?) lontana dal poter compiere questo compito. Il peso di un passato rimosso o mitizzato riduce gli spazi del possibile. Ma i numeri dicono che per Cile, Argentina e Messico l' uscita è teoricamente possibile nel giro di una generazione. Certo, i numeri sono solo numeri. E' replicabile (nei suoi risultati) l'esperienza europea di un secolo fa o quella asiatica degli ultimi decenni? Perché non crederci? Quali sono le ragioni di filosofia della storia che condannano l'America latina a essere una regione eternamente “in sviluppo”? E finalmente, è legittimo rinunciare alla possibilit à concreta di cambiare la vita di milioni di persone per un miscuglio di altisonante, a volte rivoluzionaria, pigrizia intellettuale, incapacit à di lettura critica del proprio passato ed eterni personalismi che dinamitano sul nascere le organizzazioni sociali permanenti che pretendono creare?

 

Poter infilare negli anni a venire serie riforme dello stato, nuove politiche agrarie e un nuovo ciclo di crescita con occupazione, porrebbe paesi interi sulla soglia di una gigantesca (e probabilmente irreversibile) trasformazione fisiologica: passare da un mondo di classi medie (con aspirazioni semiaristocratiche) e miseria di massa al tipo di problemi che oggi hanno il Portogallo o la Slovenia. Ci ò che, evidentemente, non sarebbe il salto verso un'utopia realizzata ma farebbe vivere molto meglio varie decine di milioni di persone. Esiste una sinistra regionale capace di concepire e contribuire a realizzare un progetto di mediano periodo che possa traghettare San Paolo nella direzione di Atene o Messico D.F. nella direzione di Lisbona lungo una corrente sostenibile di integrazione sociale nel giro di una generazione o poco pi ù ? Eccoci arrivati a un punto in cui qualsiasi risposta contundente, affermativa o negativa, è quasi sicuramente una semplificazione destinata a razionalizzare ci ò che non si capisce o si capisce parzialmente. Naturalmente c'è di tutto nella vigna del Signore, ma con pesi specifici differenti.

 

Di fronte allo spettacolo poco edificante delle conseguenze attuali di politiche, stili di governo e inerzie accumulate, la sinistra dovrebbe essere la principale voce critica (la spina nel fianco) contro le diverse tradizioni politiche, economiche e culturali che confluiscono nel presente latinoamericano. Non sempre è cos ì; in realt à quasi mai. La nostalgia di passati pi ù o meno abbelliti da una memoria selettiva gioca ancora il ruolo di un retaggio mitico che pesa sulla capacit à di capire il presente e immaginare il futuro possibile. Il peronismo in Argentina, il varguismo in Brasile o il cardenismo in Messico sono differenti nebulose culturali e altrettante forme di nostalgia che adornano ideologicamente gravi ritardi di comprensione oltre a testimoniare la fede in un futuro che si è dissolto lungo la strada. Per non parlare della nostalgia culturale verso la Sierra maestra. Con la conseguente perdita di tempo tra bussole che misurano gli spazi di altri tempi. E cioè Rama che, di tanto in tanto, si sveglia, tende l'arco, sbaglia la mira e si riaddormenta. E la storia continua come una sequenza di occasioni perdute.

 

Gran parte del passato della sinistra latinoamericana coincide o si intreccia con una larga e rinnovata tradizione di populismo, al governo o all'opposizione. Cos'è, cos'è stato, il populismo da queste parti? Un miscuglio variabile di capi carismatici, incorporazione di classi medie all'apparato statale, laicismo, una visione del popolo come unit à etica che appena tollera espressioni politiche indipendenti da quella ufficiale, poco interesse nelle regole e molto interesse in chi governa, sindacati di regime, magniloquenza nazionalista e fiumi di eticit à retorica. Meglio e peggio in una mescolanza inestricabile. Altro dato è l'indefinizione di un qualche patrimonio culturale consistente. La genericit à patriottico-popolare è la norma e l'approssimazione di pensiero e linguaggio, frequente. Un esempio lontano viene da Antonio Díaz Soto y Gama, delegato zapatista alla Convenzione di Aguascalientes (1914), che in un famoso discorso chiarisce agli altri delegati le sue fonti di ispirazione politica: Budda, Cristo, San Francesco, Marx ed Emiliano Zapata. Un'insalata oratoria che fa scuola fino ad oggi (e della quale Hugo Chávez è un degno continuatore) e che sembrerebbe fatta apposta per confermare una visione della cultura come un adorno malleabile a tutti gli usi, soprattutto quelli di chi ha il potere o lo cerca. Un'irrilevanza pomposa che pu ò essere utile di tanto in tanto (qualcuno che faccia un bel discorso) a una politica vista come nudo rapporto di forza, come gioco a somma zero.

 

Ma tra passato e presente una differenza c'è: il vecchio populismo (Vargas, Cárdenas, Perón) port ò suffragio universale, una qualche mobilit à sociale, classi medie ai vertici dello stato e la rottura (parziale) di vecchi equilibri oligarchici. Il nuovo populismo (Chávez, López Obrador e altri), vive culturalmente di rendita e senza idee nuove è obbligato alla ripetizione dei vecchi schemi per rivivere un tempo di nazionalizzazioni patriottiche e organizzazione corporativa del “popolo”. E se aggiungiamo a questa matrice culturale l'apporto di un marxismo quasi sempre usato per confermare quello che si sa (o si crede sapere) e quasi mai per cercare, si avr à un'idea dei pesi morti che continuano a gravitare su una cultura di sinistra con una non grande considerazione verso il pensiero critico analiticamente costruito e con una spiccata proclivit à a ideologizzare e personalizzare.

 

Ma a contropelo di quello che si è appena detto, Lula e Bachelet, per fare gli esempi pi ù noti, sembrano un'altra storia nel tentativo di avanzare verso una sinistra postpopulista. Lasciamo da parte se il brasiliano compie con qualche consistenza di medio periodo (oltre la sua presidenza) il compito di consolidazione democratica e di impulso riformatore o se la stessa cosa stia facendo la cilena con i suoi vincoli di coalizione. Questi soli casi fanno pensare (nonostante timidezze e incertezze) che un'altra sinistra è possibile, meno messianico-populista o meno minoritario-testimoniale e pi ù disposta a vivere criticamente i tempi reali del mondo. Anche se dobbiamo subito aggiungere che né Lula né Bachelet sono stati finora capaci di produrre nelle rispettive societ à un senso collettivo del cambiamento possibile che richiede trasformazioni profonde nel controllo sociale delle istituzioni e in un nuovo stile di fare politica, meno erosionato dalla corruzione e dall' impunità.

 

Con le sue ambiguit à ecumeniche il populismo ha certamente ridotto gli spazi per un pensiero e una pratica di sinistra indipendenti. Ma questo non è stato, e non è, il solo ostacolo. Paradossalmente l'altro è Cuba. Il regime castrista ha fissato nel tempo due modelli, uno irripetibile e l'altro indesiderabile: guerriglia per cominciare e partito unico per concludere. Considerando il prestigio cubano come bastione simbolico contro l'ingerenza regionale statunitense, questi riferimenti sono ancora culturalmente insuperati in grossa parte dell'arcipelago della sinistra latinoamericana. Ed è inutile insistere sul danno devastante che ha prodotto qui la combinazione di populismo e marxismo dottrinario. I danni restano mentre miti e riflessi svaniscono troppo lentamente.

 

Distribuiti irregolarmente su realt à diverse e cambianti, alcuni elementi comuni sono riconoscibili nel presente di una parte non piccola della sinistra regionale. Uno è lo scarso interesse verso l'elaborazione di idee e il dibattito aperto. Nessuna sorpresa che gli intellettuali siano generalmente scarsi in molti partiti di sinistra (come se il mondo fosse trasparente). E per la stessa ragione sono scarse le pubblicazioni di partito con una qualche idea di costruzione culturale di lungo periodo o anche solo aperte all'elaborazione dell'esperienza. Come se l'arco fosse tutto e la mira niente; come se le masse fossero sempre disponibili al richiamo della foresta. Pur considerando la debole consolidazione sociale dei partiti (di destra o di sinistra) nello scenario latinoamericano, resta il fatto che gran parte della sinistra non fa ancora i conti con i suoi cadaveri nell'armadio: il nazionalismo e il corporativismo della tradizione populista e la visione sovietico-cubana del cambiamento come atto di volont à del potere. Senza il potere , il resto diventa irrilevante. Residui di riflessi e progetti esauriti che continuano a pesare sul presente e nelle teste.

 

La storia di AQ raccontata da Lu Xun nel 1921 continua a essere d'attualità. Il racconto comincia con la descrizione del protagonista, AQ, che d à corpo al cinese dell'epoca che vuole lasciare il passato alle spalle ma non ne è poi tanto sicuro. Il suo tratto caratteristico è che ha un'eccellente opinione di sé stesso e nel corso della vita passa da una sconfitta all'altra senza capirne mai le ragioni che dipendono dai suoi errori e cattivi giudizi. Le sue spiegazioni sono sempre le stesse: la sfortuna, le cospirazioni, le invidie. A AQ resta solo un grande desiderio: l'arrivo dell'esercito rivoluzionario al suo villaggio per stabilire un nuovo ordine e la sua virt ù bistrattata. E quando il sogno si compie e i rivoluzionari arrivano, AQ è passato per le armi.

 

L'autocritica può diventare un rito di conformismo di massa, ma (fuori dai giochi del potere) non ci sono molte altre strade conosciute per imparare dall'esperienza. Da queste parti, purtroppo, una strada non molto frequentata.