La obsolescencia sintomática

Ugo Pipitone

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Niente di nuovo sul fronte occidentale

George W. Bush è tornato a Washington alla fine di un giro latinoamericano in cinque tappe che lascia tutto, più o meno, come prima. Scopo probabile: mostrare all'America Latina che gli Stati Uniti, nonostante le apparenze, non si sono dimenticati della sua esistenza e alleggerire la pressione su un inquilino della Casa Bianca a cui poche cose vanno ormai per il verso giusto.

L'11 settembre e la nuova ondata di spirito guerriero –a conferma che l'unilateralismo americano è ormai diventato un fattore di instabilità globale- hanno retrocesso l'America Latina a un più basso gradino di priorità per gli USA. Come se la regione fosse una riserva strategica acquisita che non richiede cure particolari. Certo è che la disattenzione ha il vantaggio di una minore ingerenza negli affari politici dei paesi della regione. Ciò che ha aperto gli spazi sia al neopopulismo che a una sinistra riformista, anche se non sempre riformatrice. Tra Venezuela e Cile, per capirci, con diverse varianti intermedie.

L'unica novità di questo viaggio di fine presidenza è la possibile formazione di un polo mondiale di agricoltura energetica (l'etanolo) con Stati Uniti e Brasile come protagonisti iniziali. Oltre a questo, quasi niente. Ma all'irrilevanza politica della presenza recente di Bush in alcuni paesi latinoamericani corrisponde la rilevanza del rapporto economico tra queste due metà d'America. E a questo proposito, qualche nuova c'è.

Numeri americani

Quasi la metà delle esportazioni latinoamericane prendono la via degli Stati Uniti e appena il 14% quella dell'Unione Europea. Tanto per ricordare le forze gravitazionali entro le quali si costruiscono differenti potenziali d'influenza politica. Dalla metà degli anni 90 a oggi le esportazioni latinoamericane verso gli Stati Uniti si sono moltiplicate per tre, mentre le importazioni dallo stesso paese sono appena raddoppiate. E dal 2000 la regione registra un crescente avanzo commerciale. Aggiungiamo che nel corso di un decennio gli investimenti diretti degli Stati Uniti in America Latina si sono raddoppiati. Anche se nel 1995 la quota latinoamericana degli investimenti mondiali degli Stati Uniti era del 18% e oggi è ridotta al 13%.

Nonostante il vento favorevole che viene dal commercio e dal movimento dei capitali, l'America Latina stenta a trovare una rotta di crescita economica di lungo periodo. Nello sconcerto del presente non è cattiva idea ricorrere alla storia: i paesi che sono riusciti tardivamente a compiere il salto oltre l'arretratezza (Svezia e Danimarca alla fine del diciannovesimo secolo o Corea del sud e Taiwan alla fine del ventesimo) indicano che la crescita accelerata è condizione ineludibile anche se non sufficiente. Fuoriuscire dall'arretratezza richiede concentrare in una o due generazioni una crescita economica superiore a quella dei paesi che si trovano alla frontiera mondiale della produttività e del benessere.

Dall'America Latina non vengono buone notizie: negli ultimi 25 anni il PIL pro capite è cresciuto a un tasso medio annuale dello 0,6% contro il 2% degli Stati Uniti. Invece di ridursi le distanze si allungano. E sempre per restare nei territori della storia: due secoli fa il Messico e il Brasile avevano un Prodotto Interno Lordo pro capite tra 50 e 60% di quello statunitense; attualmente si muovono tra 20 e 25%. Per non dimenticare il peso storico della corrente contraria.

Tra Cile e Venezuela

Per fuoriuscire dall'arretratezza non c' è bisogno solo di crescita sostenuta ma di consolidamento istituzionale, mobilità sociale e altro. Semplificando e seguendo il Tao, potremmo dire che negli ultimi anni si sono definiti due cammini di sviluppo regionale: Cile e Venezuela. Il Cile è sicuramente il maggior successo economico latinoamericano dell'ultimo quarto di secolo. Il PIL pro capite è cresciuto qui a quasi il 3% contro il 2% del Brasile, l'1,5 del Messico e lo -0,8 del Venezuela. Ma dal 2004 anche il Venezuela comincia a registrare gli effetti positivi in termini di crescita di un prezzo del greggio che si moltiplica per cinque da quando Hugo Chávez arriva al potere nel 1999. Sintetizziamo dicendo che oggi il reddito medio cileno è di 14 mila dollari contro meno di 7 mila dollari in Venezuela.

Eppure, nonostante il successo economico (più antico in Cile e più recente in Venezuela), nessuno dei due paesi sembrerebbe aver imboccato la strada giusta. Né il Cile che cresce alimentando una maggiore segmentazione sociale, né il Venezuela il cui governo continua a non assumere che non esiste al mondo caso alcuno di uscita dall'arretratezza in virtù dell'abbondanza di una qualche materia prima. C'è bisogno di qualcos'altro, ma è comprensibile che quando si crede di fare storia, la storia reale importi poco. Al margine: la fragilità istituzionale venezuelana rispetto al Cile, difficilmente si ridurrà nel futuro con una cura intensiva di populismo e potere carismatico del leader di turno.

Se le speranze di uscire dall'arretratezza in queste parti del mondo dipendessero da una crescita con segmentazione sociale (allo stile cileno) o da una trainata dal prezzo del petrolio (allo stile venezuelano), le prospettive a medio periodo non sarebbero tra le più rosee. E in effetti non è detto che lo siano.


 

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